V

Dopo l’anno felice dell’Olimpiade, del Demofoonte, della Libertà, la parabola metastasiana potrebbe schematicamente descriversi in un unico declino, ché in quelle opere il Metastasio aveva espresso tutto il fondo piú autentico della sua poesia e del suo accordo piú profondo con il proprio tempo. E un lettore impaziente potrebbe anche far punto qui e chiudere la sua lettura cercando altrove le nuove forme vive di poetica e di poesia del Settecento.

Ma certo questa sarebbe un’operazione troppo frettolosa, antistorica e perderebbe vari punti di interesse, soluzioni tecnico-teatrali notevoli, risultati parziali non spregevoli, e quegli elementi di aspirazione piú alta e sproporzionata della poetica metastasiana che fanno pur parte di un ritratto intero del Metastasio.

Andrà anzitutto notato che sull’onda del risultato dei suoi capolavori il Metastasio fu spinto ad una ricerca vasta di soluzioni e di temi teatrali fra il taglio piú breve delle «azioni teatrali», la direzione della tematica sacra (sin allora appena provata), la gustosa e gracile linea comico-parodistica delle Cinesi, del 1735, il melodramma tragico-eroico, la ripresa del melodramma amoroso sempre piú complicato con l’aperto sviluppo dell’elemento virtuoso altruistico: per non dire dell’ondeggiare fra l’ambizione di ambientazione storico-classica e il pimento di climi piú favolosi ed esotici, che, in generale, apportano anche una maggiore cura ed amplificazione del soccorso scenografico prima piú stilizzato e sintetico. E tutto ciò in un percorso inizialmente piú folto, poi progressivamente piú rallentato, avaro e dominato dal tema virtuoso esemplare e dalla ripresa, e travestimento, di situazioni già sfruttate quando il poeta, per sua confessione, diventava «ripetitore di se stesso», esecutore artigianale delle «superiori commissioni». Mentre con piú autentico interesse si volgeva a quell’attività critica di giustificazione del melodramma e della propria opera che abbiamo considerato nel capitolo sulla poetica, ma che certo andrebbe ricollocata nella fase piú tarda e senile di attività intellettuale, di autodifesa e autochiarimento a posteriori, fuori del premere dell’ispirazione e del ricambio piú vivo fra poetica e poesia.

Ma questo lungo declino ha fasi che vanno pure scandite entro la generale curva di minore felicità interna e di minore contatto con un pubblico vario e medio, fuori ormai della piú vera zona feconda dell’Arcadia razionalistica e rococò. Una prima fase è quella, ricchissima di lavoro, che va dalla Clemenza di Tito (1734) all’Attilio Regolo (1740) e che, come dicevo, congloba direzioni ed esperienze diverse.

Da una parte il divertimento teatrale delle Cinesi (su cui il Metastasio ritornò nel 1753 aggiungendovi la voce del personaggio maschile, Silango) che è prova dello spirito ironico e comico metastasiano divenuto, rispetto all’impeto comico dell’Impresario delle Canarie, piú sottile e aristocratico (e piú commisurato a quel pubblico di corte da cui lo scrittore era sempre piú attratto), ma ancora ben capace di una linea sinuosa e nitida, e di una felicità di humour intelligente (di un razionalista fuori dell’auto-inganno poetico e sentimentale di «Sogni e favole io fingo») nella parodia di direzioni melodrammatiche tragiche, pastorali, comiche, con battute che han sapore di autocritica: come quella riguardante lo stile tragico che

sempre mantiene

in contrasti d’affetti il cuore umano;

ma quel pianger per gusto è un poco strano.

Mentre proprio sullo stile tragico o del melodramma tragico (fra la scuola del Gravina, la gara con lo Zeno e il teatro francese e un’innegabile aspirazione personale nutrita, nelle sue ragioni piú sincere, dalla persuasione metastasiana del saggio che non vive solo a se stesso e domina i propri sentimenti privati per la pubblica felicità, espansa retoricamente nel cielo astratto delle grandi anime illustri ed esemplari, con dietro l’eroismo di Corneille, del Racine del Mithridate e magari l’altruismo romanzesco della Scudéry) il Metastasio piú apertamente puntava, accettando insieme – sulla linea del suo «dovere» di poeta cesareo e della sua fede nella provvidenziale virtú dei principi per il bene dei popoli – il suo compito di educatore di una élite di corte. Rispetto alla quale, estraniandosi dalle contese di fazioni e dagli intrighi effettivi della corte viennese, egli proponeva ideali di fedeltà estrema dei sudditi e di estrema magnanimità dei regnanti, con un singolare recupero, in tal direzione, delle virtú imperiali e repubblicane romane e greche. E insieme, quasi sulla traccia della poetica tragica parodiata nelle Cinesi, cercava di ricavare da situazioni tragiche ed estreme il massimo di contrasto di affetti, piú che nel modulo piú suo di speranze e timori, in quello di dovere e piacere, di virtú e sentimento, irrigiditi ed estremizzati rispetto al loro uso piú funzionale agli elementi patetici, amorosi e al tono drammatico a fondo idillico-elegiaco, e con una maggior difficoltà di risoluzione di canto melodrammatico.

Infatti, a rileggere La clemenza di Tito, del 1734, il Temistocle, del 1736, e l’Attilio Regolo, del 1740 (culmine di questa direzione), non si può non avvertire, nell’indiscussa abilità dello scrittore teatrale, del costruttore di situazioni e di nodi psicologici, un calore fittizio, un entusiasmo verbale che mal surroga l’autentica poesia patetica dei suoi precedenti capolavori.

Può sembrare che cosí il Metastasio tendesse piú direttamente al dramma e ad una sua autonomia maggiore dalle peripezie favolose, dagli espedienti delle agnizioni, riportando tutto ad un contrasto umano, interno ai personaggi, ma nessuno si può ingannare (proprio nell’enorme differenza che corre fra simili drammi e quelli corneilliani e raciniani) sull’effettiva consistenza e congenialità di tale direzione, che il De Sanctis e il Russo giustamente squalificarono alla luce della poesia e alla luce della storia. Ché infine, per dirla tutta subito, la drammaticità eroica metastasiana era proprio sulla linea di quell’eroismo astratto, assurdo, che si può ritrovare poi nel teatro gesuitico e magari nelle tragedie di Monaldo Leopardi e del giovanissimo Giacomo: quell’eroismo libresco che sviava da ogni impegno pratico e confluiva nell’educazione retorica degli italiani contro cui lotteranno gli illuministi e poi gli Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni.

E basti pensare ancora al fatto che il tema dell’«anima bella» cosí rilanciato dal Metastasio, non solo susciterà l’irrisione di Goethe, ma nello stesso Wieland si configurerà in modi ben diversamente concreti e borghesi all’altezza del Socrate delirante, pur sempre mantenendo margini di astrattezza anche nella configurazione foscoliana della prima Teresa e del primo Jacopo o nelle tragedie alfieriane «altruistiche» e «sublimi» dell’Agide e della Sofonisba, inserite su ben altra radice di autentica tensione morale e su ben altra intuizione tragica della situazione umana.

D’altra parte il sacrificio, l’altruismo, l’eroismo, la costanza nella virtú dei nuovi eroi metastasiani sono sempre chiaramente legati ad un tipico giudizio del mondo, ad un paragone della posterità. Sicché l’ansia di gloria si risolve in una gara e in una soddisfazione esteriore, piú affermazione teatrale di attore (teatro il mondo) che motivo intimo e veramente morale.

Ché tale è la preoccupazione costante del ridicolo Tito sempre proteso all’esterno e sempre ansioso di essere in pari con la propria figura vulgata e con il proprio impegno di clemenza ad ogni costo.

Or che diranno

i posteri di noi? Diran che in Tito

si stancò la clemenza...

Ah! non si lasci

il solito cammino.

Congiuran gli astri,

cred’io, per obbligarmi, a mio dispetto,

a diventar crudele. No! Non avranno

questo trionfo. A sostener la gara

già s’impegnò la mia virtú. Vediamo

se piú costante sia

l’altrui perfidia o la clemenza mia.

Né qui la morale della licenza, che assimilava Tito a Carlo VI, era un’aggiunta esteriore, ché davvero il poeta cesareo intendeva collaborare al sostegno della monarchia asburgica con la sua opera e se in ciò non c’era nulla di vile, come non c’era nella «genuflessioncella» del vecchio poeta davanti alla carrozza imperiale, si può ben capire che un Alfieri[1] dovesse sdegnarsi di fronte a quella «musa appigionata», come il Foscolo, con tanto maggior ragione (data la diversa coscienza storica), si sarebbe sdegnato della cortigianeria del vecchio Cesarotti o del Monti.

Nella Clemenza di Tito l’impegno del titolo è portato sino in fondo di fronte alla «scelleratezza» molto debole, confusa e riscattabile degli altri personaggi. Laddove nel Temistocle la virtú del protagonista si incontra con quella del magnanimo Serse (l’eroe repubblicano serve come esempio di virtú a tutta prova e come occasione di virtú del re persiano in una comunanza che ridonda a favore di un unico mondo di personaggi virtuosi del mondo antico) ed esse confluiscono nel supremo paradigma regale (Carlo VI, mescolanza di Serse e di Temistocle), come spiega la licenza. Cosí come (su di una linea molto perseguita dall’ultimo Metastasio) la virtú altruistica, l’eroismo e il dominio delle passioni accomunarono i termini estremi della condizione umana: selva e trono.

E sempre sullo sfondo dello «spettacolo» inaudito da dare al «mondo»:

La Persia io bramo

spettatrice al grand’atto, e di que’ sensi,

che per Serse ed Atene in petto ascondo,

giudice voglio e testimonio il mondo.

Mentre l’elemento amoroso passa in seconda linea e funziona solo come materia su cui esercitare il dominio e la vittoria della ragione e del dovere portati in piena luce. Su questa strada piú diretta al dramma eroico e storico-classico (che comporta una semplificazione degli elementi di peripezia piú favolosa e un uso di linguaggio meno melodico, piú eloquente-discorsivo), il Metastasio giunse, nel ’40, all’Attilio Regolo: certo il piú aderente al suo impegno di dramma tragico-eroico[2] e il piú povero di risonanze amorose.

Tutto è diretto all’esaltazione del protagonista e alla rappresentazione della sua lotta diretta, piú che alla vittoria sui propri affetti privati e sulla propria debolezza umana, cosí poco scavata e approfondita, all’affermazione della sua gloriosa impresa contro i tentativi dei figli, degli amici, del popolo e sin del custode cartaginese, che vogliono sottrarlo al ritorno a Cartagine e alla morte.

Costruito con innegabile abilità di condotta generale e di scena, il dramma si risolve in una frigida ed ampollosa gara di questo eroe schematico ed autoesaltantesi[3] nel mito della propria virtú e della gloria[4], solo contro la umanità indulgente e pietosa degli altri, mediocremente piú veri, ma debolissimi quando cedono alla suggestione eloquente della virtú di Regolo e si trasformano in poveri scolari di un eroismo scolastico e declamatorio. Sicché alla fine, ad un lettore sensibile alla vera poesia metastasiana e alla stessa storica comunicabilità ed influenza (si pensa tante volte a Goldoni nella scuola della espressione psicologica amorosa e nelle sfumature fra patetico ed ironico), di questo dramma impoetico riman solo la grata impressione della figuretta della cartaginese Barce, l’unica che resta immune dal contagio dell’eroismo e, nella sua svelta e maliziosa psicologia di istintiva e di innamorata, esprime, contro la volontà del poeta, il senso piú schietto di un’umanità media e concreta di fronte al furore libresco dell’eroismo romano che essa cosí limpidamente definisce nella sua vera esteriorità («avidità di lode», «ombra vana» di gloria):

Che strane idee questa produce in Roma

avidità di lode! Invidia i ceppi

Manlio del suo rival; Regolo abborre

la pubblica pietà: la figlia esulta

nello scempio del padre! E Publio... Ah! questo

è caso in ver che ogni credenza eccede:

e Publio, ebro d’onor, m’ama e mi cede!

Ceder l’amato oggetto,

né spargere un sospiro,

sarà virtú, l’ammiro,

ma non la curo in me.

Di gloria un’ombra vana

in Roma è il solo affetto;

ma l’alma mia romana,

lode agli Dei, non è.[5]

Costruire su questo dramma una figura poetica di Metastasio e vedervi un avvio di dramma piú moderno è veramente scambiare l’astratto con il concreto, non capire prima il valore poetico-storico di Metastasio, e poi la novità della tragedia alfieriana.

Cosí come, e sia detto senza lungo discorso, sarebbe erratissimo cercare un Metastasio capace di poesia religiosa negli oratori e nelle azioni sacre, cosí incerte tra freddezza, astrattezza, solennità e dolciastra pietas idillica.

Né qualche sciocco ci venga a dire che un tale scarto è frutto della vecchia dicotomia astratta di poesia e non poesia, perché (a parte il fatto che la critica non può abdicare al giudizio e alla identificazione della poesia seppure con tutt’altra via storica da quella del crocianesimo), se l’elemento eroico e la stessa fede provvidenziale-razionale di Metastasio hanno una loro funzione sollecitante all’interno e in funzione della sua poesia patetica melodrammatica, essi, isolati ed assurti a motivo autonomo e dominante della sua opera, si rivelano intrinsecamente deboli ed impoetici, falsi, retorici, e l’esile, genuino mondo poetico metastasiano cade sotto un impegno perseguito con tenacia, ma assolutamente sproporzionato alle sue forze e alla sua storica realtà. Mentre nel suo autonomo sviluppo l’elemento religioso esita fra solennità astratta e confidenze idilliche melodrammatiche (Dio e Cristo come «caro ben») rugiadose e insopportabili.

Certo anche in questi componimenti non manca l’abilità teatrale metastasiana e qualche traccia poetica piú commossa: come ad esempio nella Morte di Abele la parlata di Eva che vede ritornare Caino solo e furtivo e comincia a trepidare per un presentimento orribile, chiarito poi dal vederlo «asperso di sangue»; o, nell’Isacco figura del Redentore, di nuovo qualche scena di trepidazione materna (all’inizio della parte seconda), né l’intero Giuseppe riconosciuto è privo di una certa tenue vena affettuosa. Ma appunto non si tratta di una poesia che sgorghi dalla ispirazione religiosa né queste azioni sacre hanno una loro peculiare novità e una forza omogenea.

Né molto di interessante potrà trovarsi in quelle azioni e feste teatrali viennesi in cui l’azione didascalica-cortigiana si sviluppa anche piú direttamente (ma con minor pretesa di piú profonda capacità esemplare) di quanto avvenga nei melodrammi. Alcune di esse sviluppano cosí piú direttamente il tema dell’educazione dei principi alla luce del dominio di virtú-ragione, come l’Alcide al bivio in cui la subordinazione del piacere alla ragione e alla virtú, ma insieme la necessità del suo desiderio come radice delle azioni umane, è ben caratteristica per la visione arcadica e razionalistica del Metastasio[6] e par quasi rappresentare un legame, a livello tanto piú basso e storicamente diverso, con i principi dell’Educazione pariniana. Altre, come Il Parnaso accusato e difeso, svolgono aspetti della poetica metastasiana secondo cui la poesia (che è per Metastasio sempre la poesia teatrale) è la voce del piacere che spiana la via faticosa della virtú ed è cosí insieme il «piú bel dono» degli dei agli uomini, l’arte che avvicina l’uomo agli dei, purché chi l’esercita sia davvero poeta e non adulatore dei malvagi[7].

Veri e propri trattatelli di morale e di poetica didascalica che integrano quanto abbiamo detto della concezione metastasiana della vita e della poesia e che, certo, non vanno dimenticati come motivazione e sostegno del prevalere della tematica virtuosa e «sublime» accanto alla piú forte gara con Zeno e con i grandi tragici francesi e all’accentuarsi della coscienza metastasiana del proprio compito di poeta cesareo, educatore di principi e di sudditi regali come paradigmi umani superiori, ma universalizzabili in ogni situazione sociale di quest’ordine rigidamente monarchico.

Ché, come dice il coro della Sant’Elena al Calvario, del 1731 (con una punta sui re malvagi, che piú tardi meno si sarebbe accordata con la fiducia nella naturale bontà dei «legittimi»),

quanto può ne’ soggetti

l’esempio de’ monarchi! Ognuno imita

di chi regna il costume; e si propaga

facilmente dal trono

il vizio e la virtú. Perciò piú grande

sempre è nel re: che del fecondo esempio

il merito e la colpa

per cui buono o malvagio altri si rende,

premio maggior, maggior castigo attende.[8]

Naturalmente anche in questi componimenti minori e piú direttamente artigianali e cortigiani non mancano i segni della mano metastasiana, del suo disegno ritmico-discorsivo. Ma, come dicevo, in essi piú prevale l’intento allegorico-pedagogico.

Sicché, chi cerchi note poetiche e vibrazioni ancora vive nella tarda operosità metastasiana dovrà pur sempre volgersi ai melodrammi piú fedeli all’ispirazione amorosa, affettuosa, patetica. Anche se dovrà notare che essa va continuamente declinando di fronte al prevalere dell’impegno eroico e didascalico e con grande difficoltà riesce a fluire marginalmente e parzialmente nelle parti piú libere o ad acquistare magari qualche sua particolare tonalità nel nuovo intreccio di elementi sublimi e virtuosi, quando questi comunque toccano (e sporadicamente riescono a movimentare) piú i motivi della fedeltà amorosa o degli affetti familiari che non quelli del puro onore e della grandezza regale.

Cosí, scartato il debolissimo Achille in Sciro (che par pensato soprattutto per certa nuova ricchezza di cori alla greca e per nuovi abili accordi fra scenografia e azione[9]), si potranno ricercare (perduta ormai l’organicità poetica dei capolavori del ’33) note piú intense nel sentimento materno di Mandane (con echi chiari della Merope maffeiana, riprova anche questa della gara tragica cui il Metastasio si esponeva[10]) nel Ciro riconosciuto, che ha scene e specie recitativi ancora esemplari per la nitidezza del disegno psicologico dei contrasti e dei tormenti del cuore (come il monologo di Mandane nella terza scena del secondo atto, come la parlata di Arpalice nella scena undicesima del terzo atto[11]), e nella tensione amorosa e amorosa-virtuosa della Zenobia, ricca di nuovi tagli di scena drammatica e di una notevole complessità nella situazione della protagonista combattuta fra un primo amore abbandonato per obbedienza al padre e l’amore sgorgato dalla fedeltà per lo sposo entro una complicata peripezia di lotte per il trono e per il possesso di Zenobia fra Radamisto, Zopiro e Tiridate.

Ancora una volta si avverte che il tentativo di drammatizzazione troppo complessa supera le capacità metastasiane, ma nel piú confuso viluppo drammatico la forza delle situazioni patetiche, degli incontri, degli abbandoni, dei monologhi che ricordano e presentano, è ancora notevole e l’«anima bella» Zenobia ha nella sua lotta qualche accento piú intimo[12], come l’ha la gelosia di Radamisto, che trova anche qualche raro momento di nuova carica patetica nel linguaggio:

a un tempo istesso

freme l’alma e sospira,

mi straccia il cor la tenerezza e l’ira.[13]

E se la conclusione consiste spesso nella vittoria della fedeltà sino all’assurdo, nel riconoscimento che «i legami / de’ reali imenei per man del fato / si compongono in cielo», nella sconfessione della «necessità», dell’amore che risulta dominato dal dovere e dalla ragione (e dunque nella direzione pedagogica, eroica, cortigiana di queste nuove zone), la stessa scena finale in cui Zenobia riesce a convincere il suo primo amante, Tiridate, a rinunciare a lei proprio in forza del loro amore virtuoso ed eccelso (diverso dalle «smanie» dei «vili amanti») ha una sua dignità e tensione che risente ancora, nella nuova tematica, della spinta patetica dell’Olimpiade e tenta un accento piú tragico senza raggiungerlo e pur con qualche nuova nota psicologica, certo piú interessante della psicologia puramente eroica del Regolo.

* * *

A distanza di alcuni anni, nel 1744, l’impostazione avviata nella Zenobia viene ripresa nell’Ipermestra e nell’Antigono che piú chiaramente tendono a ricondurre l’impostazione virtuosa-magnanima (gli «argomenti» puntano sulle «ammirabili prove di virtú» della «magnanima principessa» Ipermestra, sulle tante prove di ubbidienza, di rispetto e di amore di Demetrio) al regno degli affetti familiari ed amorosi pur in una maggior ricerca di dramma.

Con risultati tutt’altro che spregevoli, ma frammentari, nella Ipermestra (che è replica della situazione dell’Issipile e con ciò già mostra l’indebolirsi della inventività metastasiana almeno nelle sue risorse di argomenti) colpiscono molte volte mosse drammatiche che esteriormente richiamano alla mente versi e particolari alfieriani, che debbono comunque esser notati per la lettura alfieriana del Metastasio[14], e insieme giri sintattico-lirici di particolare finezza:

Quei muti sguardi

rivolti al ciel, quell’umide pupille

in cui ride il piacer, quelli d’affetto

insoliti trasporti, onde a vicenda

stringe l’un l’altro al sen...[15]

S’io volessi,

non potrei non amarti. Ad altra face

non arsi mai, non arderò: tu sei

il primo, il solo, il sospirato oggetto

del puro ardor che nel mio sen s’annida:

vorrei prima morir ch’esserti infida.[16]

Ma troppo spesso l’espansione patetica si fa eccessiva e viceversa manca l’omogeneità piú vera fra le situazioni e il filo d’azione che le lega, il rapporto fra il cresciuto piano drammatico e una costante altezza di tono.

E tale sproporzione si fa piú evidente nell’Antigono, chiara gara con il Mithridate raciniano, ed estrema prova del Metastasio nella direzione dell’eroismo altruistico applicato alla tematica amorosa.

Berenice è contesa fra Antigono, il suo figlio Demetrio ed Alessandro: la situazione (che nel Racine conduce al calore bianco di un dramma della coscienza di rara potenza) provoca nel Metastasio una serie di prove estreme e paradossali di sacrificio che solo in Berenice (come ha ben osservato il Varese[17] sulla scorta delle osservazioni dell’Odescalchi) sostengono un piú vero movimento patetico e la sua risoluzione nel canto dell’aria, che per l’ultima volta compare efficace, ma già troppo languida, in quest’opera:

È pena troppo barbara

sentirsi, oh Dio! morir,

e non poter mai dir:

«Morir mi sento».

V’è nel lagnarsi e piangere

un’ombra di piacer;

ma struggersi e tacer,

tutto è tormento.[18]

Mentre le prove rimangono come punte irte non collegate dal fluire organico della vicenda patetica e i contrasti degli altri personaggi (ma spesso anche di Berenice) non si risolvono nella continuità recitativo-aria e nel loro corrispettivo interno di continua e sfumata tensione psicologica.

E la sproporzione riguarda anche il divario fra certi cedimenti di amore in pura galanteria e la sua eccessiva tensione in equivalente di virtú sublimata, di espressione di un’«anima bella» e regale.

Del resto la musicalità che ancora affiora nell’Antigono va però separandosi dalla sua funzione melodrammatica e si isola, con raro sgorgo, nelle tarde cantate (come l’Aurora del ’59, piena di delicati accenti musicali e visivi[19]), mentre trova un momento di eccezionale felicità, ancor negli anni che esaminiamo, nella canzonetta La partenza, del ’46.

Certo anche questa non ha piú la forza e la complessità di ritmo, di scena, di svolgimento della Libertà e la sua caratteristica piú evidente è un gusto piú simmetrico e la ripresentazione successiva, senza svolte precise, del «fiero istante» e del ritornello invariato che ne suggella con un sospiro elegiaco e dubitativo la frattura senza speranza. Ma in questa limitazione quale finezza di accenti, quale risonanza patetico-melodica, quale sicurezza di distinzione delle variazioni sul tema, di gradazione di sentimenti recuperati entro quell’estremo lembo di un tempo psicologico, quale fascino di canto e di espressività nel vario accordo fra la rappresentazione della situazione, nelle sue gradazioni di ricordo, e il ritornello invariabile: il quale tanto piú cosí approfondisce la suggestione del suo richiamo alla pena di un distacco che mette in forse anche il ricordo affettuoso da parte della donna amata. Invariabile fino all’ultima strofa in cui esso si apre sulla sospensione dell’ultimo invito alla donna, avvertito quasi inutile di fronte alla prefigurazione dolente della sua spensierata frivolezza, della sua smemoratezza e volubilità fatale, tanto piú sensibile e dolorosa proprio mentre il poeta cerca di legare ancora a sé l’amata con l’insistenza sulla propria fedeltà di memoria, sulla singolarità del suo amore disinteressato, sulla crudeltà indimenticabile dell’addio.

Tutto è qui ancora inciso dalla mano ferma e leggera del Metastasio, dalla sua capacità di linguaggio senza abbondanza, che delinea in pochi tratti una situazione patetica, una figura e uno sfondo sobrio preciso e insieme vago e vasto:

Io fra remote sponde

mesto volgendo i passi...

Dall’una all’altra aurora

te andrò chiamando ognora...

Ecco, dirò, quel fonte

dove avvampò di sdegno,

ma poi di pace in pegno

la bella man mi dié.

«Quel fonte», la «bella mano», elementi caratteristici di un linguaggio poetico che ha la possibilità, se non di risonanze infinite, certo di una sua concretezza e suggestione, di una determinazione e di una vibrazione interna che esaltano al massimo la poesia del patetico proprio in quanto ne rastremano ogni esuberanza ed ogni commento. E la scuola del classicismo (donde ancora una spiegazione della simpatia leopardiana) si ferma alla limpidezza, senza giungere alla smaltatura, alla plasticità, alla pregnante definizione oraziana-pariniana, con un respiro breve, ma sincero, una sorta di porosità e granulosità piú concreta e sensibile.

* * *

La problematica dell’«anima bella», legata al problema della naturale sublimità e «paternità» dei principi «legittimi» e della tendenza «sublime» di personaggi semplici, pastorali (la radice piú ingenuamente democratico-arcadica che il Metastasio non vuol rinnegare affidando al cielo il potere di far cambiare sorte senza infrangere mai il saldo ordine delle cose), viene ripresa dal Metastasio nella penultima fase della sua attività melodrammatica, fra il ’51 e il ’56, quando, con l’aiuto di una crescente varietà esterna di scenografia e di ambientazione, egli ritenta, con una sfiducia documentata dalle lettere[20], la via teatrale piú illustre, al di là delle feste e azioni teatrali di minor respiro.

Si tratta di tre melodrammi, Il re pastore, L’eroe cinese, la Nitteti, che segnano in maniera piú accentuata e rovinosa il declino della poesia metastasiana. La stessa brevità di queste opere non è casuale e corrisponde all’incapacità metastasiana di distendere la situazione in un giro tanto piú ampio di quello prescritto dalla semplice necessità delle peripezie.

Lo sgorgo patetico si è come rattrappito e proprio nel ricalco di certi movimenti dei melodrammi piú ispirati si può cogliere l’essenziale caduta poetica del Metastasio. Si ricordi cosí il monologo di Cleonice nel Demetrio (di cui il Re pastore è replica) e lo si confronti con questo strozzato, esausto movimento idillico di Elisa:

Fra poco

io non dovrò mai piú lasciarti: insieme

sempre il sol noi vedrà, parta o ritorni.[21]

Tutto poi converge nella esplicita morale-concettistica del titolo: i re pastori dei loro popoli!

Mentre l’Eroe cinese (legato al gusto di ritrovare la virtú sublime anche in popoli lontani dalla storia classica) ritenta il modulo dell’«inudita fedeltà» di un suddito e dell’«inudito eccesso di virtú» di un «privato» che rivela poi la sua natura principesca.

E la Nitteti (di argomento egiziano), riallacciando ancora una volta l’argomento didascalico cortigiano, in un’ultima variante (il culmine dell’«anima bella» è l’unione della maestà regale con la semplicità pastorale), con il tema amoroso, verifica su di questo il penoso sforzo del vecchio poeta di dar ancora voce alle vibrazioni, ai palpiti del cuore innamorato e tormentato dal destino avverso, in un accordo duplice di aria-recitativo-aria che indarno sollecita, nel colloquio col cuore, la pigra sensibilità metastasiana:

Povero cor, tu palpiti:

né a torto in questo dí

tu palpiti cosí,

povero core!

Si tratta, oh, Dio! di perdere

per sempre il caro ben,

che di sua mano in sen

m’impresse Amore.

Troppo, ahi troppo io dispero!

M’ama Samnete... è vero;

ma che potrà lo sventurato in faccia

ad un padre che alletta, a un re che sforza,

a un merto che seduce? Il grado mio,

gli altrui consigli... il suo decoro... oh Dio!

Povero cor, tu palpiti;

né a torto in questo dí

tu palpiti cosí

povero core![22]

Qui veramente il canto interno del Metastasio è diventato un «canticchiare» (come disse il Flora per questi versi[23]) smorzato e flebile, un’eco lontana ed opaca di una voce tenera ed espressiva.

* * *

Dopo questo pallido addio al patetico e al canto nella Nitteti, i «bisogni del cuore» sembrano sempre piú spengersi, in un grigio, desolante tramonto prosastico, entro il secco diagramma virtuoso-eroico che domina le penose prove dei due drammi romani, Il trionfo di Clelia e Romolo ed Ersilia (ricalchi di brani di storia senza invenzione e senza partecipazione poetica), e il romanzesco Ruggero.

Ma giova attardarsi nella loro analisi? Tutto si è spento definitivamente e la stessa trama del recitativo sembra un traliccio bruciato e scoperto e qualche volta persino contorto e smozzicato. La morale cortigiana domina indisturbata e qualche mesto movimento pessimistico, tanto piú deciso e duro nelle lettere senili

(e pur di queste

anime immonde è per lo piú la sorte

tenera protettrice...

quando sarà che a fronte

del vizio, ognor trionfatore invitto,

la povera virtú non sia delitto?...[24]

Ma perché mai

limpido il core in fronte

non si legge a ciascun? Sempre trovarsi

cinto d’inganni, ignorar sempre i veri

interni altrui pensieri, ah questa pena

contamina, avvelena

il maggior ben per cui dolce è la vita!),[25]

non ha la forza di rompere la scorza retorica piú compatta, il monotono ritornello dell’«esaltata umanità» delle «eccelse alme romane», delle «anime grandi», capaci di «debellare» gli altri e se stesse con le loro prove di una inaudita virtú.

Cosí come stanca ed esausta giunge la voce del vecchio poeta anche quando ricalca il sentiero piú suo dei primi ricordi amorosi e ove pure, quasi in un ultimo estenuato barlume di luce, egli trova sporadicamente accenti piú suoi:

Oh Tebro, oh Roma, o care sponde, a cui

i miei primi ho fidati

amorosi sospiri, io vi abbandono;

ma la maggior vi lascio

parte del core. Oh quante volte al labbro

mi torneranno i vostri nomi! Oh, quante

su gli amati sentieri

verran di questi colli i miei pensieri![26]

Un’ultima eco di quella voce che colpí le «maître des âmes sensibles» e il poeta degli idilli elegiaci.

Una lettura, la mia, troppo alla luce della simpatia rousseauiana e soprattutto di quella leopardiana?

Ma era poi ben quella la piú viva sostanza metastasiana e la possibilità di una sua eredità: non quella del Catone e del Regolo che confluiva con la tradizione della lirica eroica e pindarica, si mescolava con la eloquenza montiana e magari con gli accenti ben diversi dell’Alfieri in una confusa tensione che risentí il Leopardi giovinetto caricandola della sua disperata volontà di azione (e sempre piú assimilandone i puri elementi alfieriani), ma quella dell’Artaserse, del Demetrio, dell’Olimpiade, del Demofoonte, quella della libertà e dei diritti e dei contrasti del cuore, quella della catena degli affetti e della loro distinzione nitida e delicata, del canto interno idillico-elegiaco che sale dalla forza di disegno del recitativo all’effusione cristallina delle arie, sollecitata da un intero nucleo poetico esile, ma genuino.

Superata come poetica dall’illuminismo, dal neoclassicismo, dal preromanticismo, la poesia metastasiana seguitò però ad alimentare, con il gusto della precisione e del canto, le poetiche settecentesche. E come l’educazione sentimentale e teatrale metastasiana fu essenziale al Settecento e moduli metastasiani rifluirono fin dentro certe zone dell’Iliade montiana, cosí anche nel preromanticismo la sensibile poesia metastasiana del cuore fu una delle forze interne della tradizione italiana. Sicché il piú grande lirico italiano dell’Ottocento, il Leopardi, ne risentí (cosí lontano ormai dalla concezione del letterato metastasiano e dalla sua visione vitale) la lezione di disegno e di canto che aveva portato al massimo di poesia possibile le eleganze della poetica arcadica.

Non occorre qui dire con quanto antimetastasianesimo nella forza ideale, morale, fantastica dei Parini, dei Goldoni, degli Alfieri, dei Foscolo, dei Leopardi: ma certo con un rapporto non trascurabile su di una linea di razionalità e di fantasia che caratterizza la forza lucida e densa del nostro grande classicismo romantico.

Anche per questo uno storico letterario non può non guardare con particolare interesse all’esperienza metastasiana e alla sua sintesi arcadico-razionalistica, senza timore di passare per un nuovo arcade, come qualche volta sembrò temere Luigi Russo che, combattendo decisamente l’illusione retorica carducciana di un Metastasio eroico e puntando sul Metastasio patetico, ben mostrava concretamente di saper collaborare, sin dalla sua prima opera, a quella ricostruzione storico-critica della nostra letteratura che è storia integrale di poesia e di poetica e proprio perciò non può e non deve mancar mai di riconoscere la poesia dove essa sorge e storicamente si dispiega.


1 E a proposito di Alfieri si dovrà chiarire che gli esempi di battute metastasiane (già ricordate e altre citate piú avanti) che fanno pensare ad Alfieri (e, ad esempio, per la tecnica della spezzatura dell’endecasillabo fino a sei battute di dialogo, si veda, ad esempio nel Re Pastore, scena quarta dell’atto terzo: Dove? – Qui – Quando? – Or ora – E disse? – E disse...) non tolgono che il Metastasio, ammirato e usufruito per lo sviluppo degli affetti (e, insieme al Maffei della Merope, risentito come scuola di «perplessità» all’altezza della Merope e del Saul, in un periodo in cui l’Alfieri par insieme distinguere la sua poesia dagli esempi settecenteschi e da questi ricavare stimoli di maggior morbidezza, sfumatura, complessità psicologica, gradazione di sentimenti e di personaggi oltre alla spinta altruistica dell’Agide e della Sofonisba), ma per l’esplicito canto dell’arietta «interrompitrice dello sviluppo degli affetti» (Vita, ed. Fassò, I, p. 37), sia stato oggetto di chiaro dissenso da parte dell’Alfieri per coerenti ragioni morali e poetiche. Come, meglio che dall’aneddoto della «genuflessioncella», si può ricavare da alcuni passi delle Satire. Nei Viaggi il senso dell’incontro mancato a Schönbrunn è piú sviluppato in senso alfieriano

(Viva sepolta in corte aver sua mente

vedev’io là l’impareggiabil nostro

operista, agli Augusti blandiente.

E il mal venduto profanato inchiostro

sprezzar mi fea il Cesareo Poeta:

tai due nomi accoppiati a me fan mostro.

Bench’io di Pindo alla superba meta

il piede allor né in sogno ancor drizzassi

doleami pur Palla scambiata in Peta:

Diva, ond’aulico vate minor fasci,

non che dell’arte sua che a tutte è sopra

ma di se stesso, ov’a incensarla ei dassi)

e nei Pedanti la parodia dell’elogiatore della tragedia cantata è chiaramente rivolta alla falsa tragedia metastasiana, e al falso grecismo, allo svuotamento degli «alti sensi feroci» che l’anima dell’ascoltatore beve «dormendo» e cioè senza ricavarne nessun vero stimolo attivo. Fulmineo giudizio profondo sui melodrammi eroici del Metastasio, che dovrebbe esser presente a chi (come il Renucci nella sua relazione al Congresso di Magonza) cerchi di appianare il dissenso radicale fra l’eroismo alfieriano e quello metastasiano.

L’affermazione dell’Alfieri è

Non canta

la tragedia fra noi: chi ariette scrive,

dai suoi Catoni i Catoncini ei schianta.

La replica di Don Buratto, fautore di Metastasio e Maffei contro Alfieri, è:

La tragedia, gnor sí, canta; e l’intenda

com’ella il vuole; il Metastasio è norma,

che i greci imita, e i greci a un tempo ammenda.

Tutta la sua tragedia, in blanda forma

gli alti sensi feroci appiana e spiega,

sí che l’alma li beve e par che dorma...

2 Si noti che esso venne musicato solo quattro volte e tardi – tranne la prima musicazione dello Hasse –, verificando nel minore interesse dei musicisti la sua natura piú direttamente recitabile e il suo minor abbrivo alla musica.

3

Non perdo la calma

fra’ ceppi o gli allori:

non va sino all’alma

la mia servitú.

Combatte i rigori

di sorte incostante

in vario sembiante

la stessa virtú.

(Atto I, scena 8a)

4 Lo stesso palpito che Regolo avverte nel famoso monologo della scena 7a dell’atto I (che il Carducci avrebbe voluto far recitare «tutti gli anni» in Campidoglio per il Natale di Roma: cfr. Opere, XV, p. 257) nasce dal pericolo in cui vede la sua «gloria» che si rivela, al solito, non come il «furore» alfieriano, ma come la deviazione retorica della radice piú degna del sentimento metastasiano del dovere degli uomini di vivere per gli altri e per il bene di tutti. La parlata è priva di ogni vera vibrazione, come il suo linguaggio è arido e supera la prova solo nella concitazione e rotondità eloquente.

5 Atto III, scena 8a.

6 Edonide si dichiara vinta da Aretea, ma riafferma la sua necessaria presenza in Alcide se retta dalla virtú e raffrenata dalla ragione, la sua qualità di dono del cielo come la ragione («quella, prudente, / sceglie e misura; anima l’altra; e quindi / stimolo han le bell’opre, / soccorso e premio. Ed a gran torto il Cielo / di tirannia s’accusa, / quando il dono è castigo a chi ne abusa». Cfr. Opere, II, pp. 410-411). E nell’Astrea pacata è pur notevole la recisa affermazione dell’amor di se stesso come radice dell’amor degli altri: e dell’amore sociale (cfr. Opere, II, pp. 283-284) e degli affetti senza di cui la ragione e la virtú non hanno materia su cui costruire.

7 Opere, II, pp. 253-255; p. 261.

8 Opere, II, p. 372.

9 Cosí, ammirata dal De Brosses, la scena (Atto II, scena 7a) in cui l’esposizione delle armi fra i doni portati da Ulisse e la musica bellicosa destano sentimenti guerrieri in Achille.

10 Cosí la narrazione di Ciro (Atto I, scena 11a) del suo scontro con il giovane ignoto, cosí i numerosi ritorni sul tema del presentimento del cuore materno o paterno nei confronti del figlio ignoto e anzi creduto nemico.

11

Parlar di te non voglio e fra le labbra

ho sempre il nome tuo; vo’ dal pensiero

cancellar quel sembiante, e in ogni oggetto

col pensier lo dipingo. Agghiaccio in seno,

se in periglio ti miro; avvampo in volto,

se nominar ti sento. Ove non sei

tutto mi annoia e mi rincresce; e tutto

quel che un tempo bramavo, or piú non bramo.

12 Si veda il monologo della scena 3a in cui Zenobia teme l’incontro con il primo amante, troppo pericoloso per il suo cuore e per la sua fedeltà di sposa.

13 Atto III, scena 4a.

14 Cosí l’avvio «Vivi, felice, vivi...» (scena ultima, Atto II) che richiama l’alfieriano «Vivi, se il puoi» (e il leopardiano «Vivi felice, se felice in terra visse nato mortal»); cosí la battuta di Ipermestra che sente arrivare Linceo «Ah son perduta! Ei giunge» che richiama il grande momento tragico dell’Agamennone. Cosí ha qualcosa di saulliano (nella voce di Micol) la prefigurazione da parte di Ipermestra del padre omicida (scena 2a, Atto II):

Pieno del tuo delitto,

lacerato, trafitto,

da’ seguaci rimorsi, ove salvarti

da lor non troverai. Gli uomini, i numi

crederai tuoi nemici. Un nudo acciaro

se balenar vedrai, già nelle vene

ti parrà di sentirlo. In ogni nembo

temerai che s’accenda

il fulmine per te. Notti funeste

succederanno sempre

ai torbidi tuoi giorni. In odio a tutti,

tutti odierai, sino all’estremo eccesso

d’odiar la luce e di aborrir te stesso.

Cosí l’affermazione di Linceo ripresa in pieno nel finale del Bruto Primo («Io de’ mortali, / io sono il piú infelice»), cosí la stessa situazione di Ipermestra sempre bilanciata fra Linceo e Danao e pronta a rivolgersi a quello dei due che è in pericolo, richiama (e in questo caso con un legame piú forte nel singolare sviluppo di temi altruistici nell’Alfieri dell’Agide e della Sofonisba) la situazione di Agiziade nell’Agide.

Anche all’inizio dell’Antigono vi è una frase di sapore saulliano:

da piú profonde

recondite sorgenti

derivano i tuoi pianti.

E le numerose situazioni di personaggi che «evitano» un incontro, pericoloso per i loro segreti e per il loro cuore, con altri personaggi, fan parte del parziale arricchimento psicologico-teatrale che non si può non costatare in questa zona metastasiana.

15 Licenza.

16 Atto III, scena 2a.

17 Op. cit., p. 97.

18 Atto II scena 3a.

19

Vedi che, mentre

su l’ultimo orizzonte

rosseggia là non ben matura ancora,

già col tenero lume i colli indora.

Oh di qual verde il prato,

di quale azzurro il ciel si veste! Oh come

di rugiadose perle

brillano aspersi i fiori e a poco a poco

aprono al dí le colorate spoglie!

(Opere, II, p. 748).

20 Altra volta egli avvertiva dolorosamente la sua decadenza poetica e pateticamente tentava di attribuirne la causa al clima nordico, ripiegando poi sul dubbio di una caduta e di un intorpidimento del suo ingegno cui invano cercava di resistere con l’assiduo lavoro e con il soccorso delle sue letture classiche ed italiane:

Chiamo ogni giorno a’ consueti uffici

le castalidi dee: ma piú non hanno

cura di me le sacre mie tutrici.

In van tempro la cetra, in van m’affanno,

ché ritrosi adattarsi i detti miei

all’armoniche leggi or piú non sanno.

Qual ne sia la cagione io non saprei:

so che poco mi val quanto adunai

da’ toschi, da’ latini e dagli achei.

Forse è vizio del clima, a’ pigri rai

del vicino Orion: forse l’ingegno

cangiò natura e intorpidisce ormai.

(Opere, II, pp. 767-768).

21 Atto I, scena 1a.

22 Atto II, scena 1a.

23 F. Flora, Storia della letteratura italiana, Milano 1937, III, p. 895.

24 Trionfo di Clelia, Atto III, scena 3a.

25 Trionfo di Clelia, Atto III, scena 7a.

26 Romolo ed Ersilia, Atto II, scena 2a.